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Montecassino – Nel 77° anniversario del bombardamento, il messaggio dell’Ab. Ogliari

Omelia dell’Ab. Donato Ogliari in occasione del 77° anniversario del bombardamento di Montecassino 15 febbraio 2021


GENERARE LA PACE PRENDENDOSI CURA DEGLI ALTRI

Per una provvida coincidenza, la prima lettura che abbiamo ascoltato – e che oggi è proclamata in tutta la Chiesa – calza a pennello con la memoria del 77° anniversario della distruzione di Montecassino.

Il racconto, tratto dal Libro della Genesi, e riguardante l’uccisione di Abele da parte di suo fratello Caino (cf. Gen 4,1-15.25), ci mette di fronte alla realtà oscura del male e, più specificamente – almeno nella prospettiva cristiana – di fronte al male del peccato. La prima espressione di quest’ultimo – il peccato originale – era stato causato dalla disobbedienza orgogliosa di Adamo ed Eva ai comandi di Dio, che – come è noto – causò la loro cacciata dal Paradiso terrestre. Ora il male del peccato si estende alla loro discendenza, prendendo forma, appunto nel fratricidio compiuto da Caino.

Di fatto, in questi due episodi biblici sono rappresentate le due forme fondamentali del peccato: l’antagonismo con Dio e quello con i propri simili, caratterizzato da violenza e morte. Non a caso, lo stesso Gesù condenserà il suo Vangelo nel duplice comandamento dell’amore a Dio e al prossimo, come unica via per ristabilire l’armonia nei rapporti dell’essere umano con Dio e con gli altri, oltre che con sé stesso.

Di fondamentale importanza per le sue ripercussioni sul nostro modo di pensare e di agire, è la reazione di Caino alla domanda rivoltagli da Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Caino risponde: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). Di fatto, che lo riconosca o no, Dio voleva proprio portarlo alla consapevolezza che egli, Caino, è il “custode” di suo fratello! In senso lato significa che ogni essere umano è custode, responsabile dei suoi simili.

In questo racconto biblico è dunque già contenuta la convinzione che «tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita (…) è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (Francesco, Lettera enciclica Laudato si’, n. 70).

La cosa più sorprendente è che lo stesso Caino, pur essendo divenuto oggetto di maledizione a motivo dell’uccisione del fratello Abele, riceve da Dio un segno di protezione, affinché nessuno ardisca vendicarsi e ucciderlo (cf. v. 15). Questa attenzione per l’omicida Caino può sorprenderci. In realtà essa è in linea con il pensiero di Dio che, da una parte, mette in risalto la dignità inviolabile di ogni persona (e dunque anche di tutti i Caini della storia passata, presente e futura), in quanto Egli ha creato ciascun essere umano a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26), e dall’altra vuol farci comprendere che, per rendere autentica la nostra convivenza umana, l’unica strada percorribile non è quella della violenza e della vendetta, bensì quella dell’assidua ricerca della pace e della concordia, ricerca che è sempre associata al sentirsi custodi degli altri, chiunque essi siano, e al prendersi cura di loro.

Calcare i sentieri della pace significa, al contempo, rafforzare il nostro impegno per gli altri, dicendo “no” ad una cultura dell’indifferenza, e contrastando la cultura dello scontro ad ogni costo che – ahimè – sembra oggi dilagare in molti ambiti del nostro vivere, intossicando coi suoi toni violenti le relazioni interpersonali e lo stesso tessuto sociale.

Come credenti che si pongono alla sequela di Gesù e del suo Vangelo, siamo chiamati dunque ad essere artigiani di pace e a far nostra la “grammatica della cura”:

  • impegnandoci per il rispetto della dignità di ogni essere umano, il cui respiro universale anche san Benedetto fa suo, quando esorta i monaci a «honorare omnes homines – onorare tutti gli uomini» (RB 4,8);
  • impegnandoci nella promozione di una cultura dell’incontro che, contrastando il virus dell’individualismo, possa condurre ad una reciproca conoscenza e stima, e generare gesti di prossimità, soprattutto nei confronti di chi è più fragile e indifeso;
  • impegnandoci ad essere attenti e solleciti per chi ci sta intorno, trasformando vaghi sentimenti buonisti in una solidarietà concreta che – secondo le parole di S. Giovanni Paolo II – consiste in quella «determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Sollicitudo rei socialis, n. 38).
  • Impegnandoci per la salvaguardia del creato, questa nostra “casa comune” che corre il rischio, sempre più reale e drammatico, di essere deturpata in maniera irreversibile, mettendo a repentaglio la nostra stessa sopravvivenza.

La stessa crisi pandemica che stiamo vivendo – e che ha fatto emergere tante ferite, soprattutto esistenziali – rende ancor più urgente l’assunzione di una “grammatica della cura”. Essa ci ha, infatti, rivelato – se mai avessimo avuto bisogno di conferme – che siamo davvero tutti interconnessi, che abbiamo un destino comune, e che nessuno può pretendere di salvarsi da solo, perché – come ha ammonito papa Francesco – ci troviamo tutti «sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme» (Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, 27 marzo 2020).

Sentiamo queste parole come un invito a servire con senso di responsabilità e generosa dedizione le comunità religiose e civili nelle quali viviamo, secondo il ruolo che rivestiamo, piccolo o grande che sia.

In particolare, chi si dedica alla cosa pubblica non dovrebbe mai dimenticare di essersi posto/a al servizio dei cittadini, non semplicemente per amministrare delle realtà materiali, ma, soprattutto, per incentivare, a beneficio di tutti, la convivenza pacifica, attraverso un dialogo franco ma rispettoso, per favorire l’accoglienza dell’altro e la valorizzazione delle differenze, per incoraggiare uno sguardo inclusivo, che non lasci indietro nessuno, soprattutto tra i più deboli e fragili, tra i meno fortunati e i poveri.

Siamo tutti salutarmente provocati a ripensare il nostro essere comunità, a ritrovare e riabbracciare quel senso di appartenenza che sta alla base del nostro vivere insieme, aprendo il nostro cuore e la nostra mente alla solidarietà, alla condivisione, alla fratellanza, contrastando ogni forma di indifferenza, di menefreghismo, di egoismo gretto e sterile, tutto ciò che – in una parola – costituisce il terreno fertile sul quale prosperano quegli atteggiamenti arroganti e prepotenti che aprono le porte alla violenza e al conflitto..

Carissimi amici, se usciamo da questa celebrazione con rinnovati propositi di bene, allora il nostro ricordo delle vittime che, settantasette anni fa, perirono sotto il bombardamento di Montecassino, non si risolverà in un mero “rito della memoria”.

Il modo migliore per ricordare quei drammatici avvenimenti, e per onorare le tante vittime che essi hanno causato, è, infatti, quello di impegnarci costantemente sulle vie della concordia e della pace, e percorrere queste vie con decisione.

Come asseriva S. Paolo VI, la “civiltà dell’amore”, fatta di prossimità, di cura e custodia vicendevoli, e di condivisione, è l’unica via che – al di là di certi ingannevoli stereotipi propinatici dalle nostre società consumistiche – può davvero realizzare i nostri aneliti più profondi, più belli e più veri. In una parola, quella dell’amore è l’unica via che ci rende giusti e felici, e non da soli, ma insieme. E così sia.