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Ma è davvero tutta colpa del reddito di cittadinanza se in Italia non si trovano più lavoratori nel mondo della ristorazione?

di Luca SPARAGNA

Ma è davvero tutta colpa del reddito di cittadinanza se in Italia non si trovano più lavoratori nel mondo della ristorazione?

Oggi vorrei approfondire l’argomento della mancanza di dipendenti nel comparto della ristorazione, eh si, un argomento abbastanza spigoloso che mi riguarda molto da vicino e che giornalmente centinaia di datori di lavoro si trovano a dover gestire.

Da mesi – e per la precisione da quando il mondo intero e nella fattispecie in Italia l’uscita dalla pandemia ha cambiato il modo di vivere delle persone, stiamo assistendo a un dibattito surreale che ci riporta indietro di anni. Ancora una volta, la narrazione mainstream ci racconta che i posti di lavoro ci sono, ma i nostri ragazzi sono choosy, bamboccioni, sfaticati. Insomma se non si trovano bagnini o camerieri, è tutta colpa dei Millennials e della GenZ che preferiscono stare a casa piuttosto che rimboccarsi le maniche.

A questa narrazione tossica si aggiunge un’altra, che riguarda il Sud e il reddito di cittadinanza. Senza dati, senza numeri, senza grandi idee, esperti ed economisti à la page ci spiegano, dalle colonne dei quotidiani o dalle comode poltrone di un talk show, che tutto sommato è inevitabile che di fronte all’atavica cultura meridionale ( i soliti terroni scansafatiche),  il reddito di cittadinanza sia stato un freno al lavoro e alla fatica.

Basterebbe ricordare a loro e a tutti gli altri che nel 2021 l’importo medio da reddito di cittadinanza in Italia si attesta intorno ai 586 euro, molto meno di qualsiasi contratto nazionale part-time. Anzi per essere più chiari e precisi, Stiamo parlando di assegni che variano da 450 euro al mese per nuclei familiari con una singola persona a 700 euro mensili per nuclei famigliari di quattro persone, se queste cifre sono considerate concorrenziali con il lavoro vuol dire che c’è chi pensa che sia giusto un salario mensile di quelle entità.

Quindi se proprio volessimo seguire il ragionamento di chi accusa il rdc di produrre fannulloni, dovremmo dire che la concorrenza non è tanto nei confronti dei contratti nazionali, piuttosto del lavoro nero, dei finti part-time o dello sfruttamento del lavoro travestito da stage.

Il settore della ristorazione, dal punto di vista lavorativo, è sempre stato un territorio delicato: molte ore di lavoro, salari spesso non congrui e poca, pochissima formazione. Il lavoro al ristorante, come ci raccontano da anni i grandi patron, è un mestiere difficile e faticoso, che proprio per questo dovrebbe essere correttamente retribuito e regolarizzato dal punto di vista di mansioni e orari. Inoltre, la formazione nel settore della ristorazione, nonostante l’Italia sia uno dei paesi al mondo con la più grande cultura enogastronomica, non sempre è all’altezza dei prodotti, del territorio e dei produttori.

Fare lo chef o il cameriere, solo qualche anno fa veniva visto come un mestiere non scelto ma capitato, adatto a chi non aveva voglia di studiare o a chi non aveva particolari competenze. La realtà, e ce ne siamo accorti nel corso degli ultimi anni, non è questa. Il cuoco deve avere nozioni di economia, merceologia, gestione, deve saper abbinare un vino, un olio, un’acqua minerale al proprio piatto, è un lavoro in armonia e collaborazione estrema con il personale della sala , il cameriere e il maitre che dovranno necessariamente avere oltre a  competenze organizzative e linguistiche anche nozioni di cultura enogastronomica abbandonando il ruolo di semplici “portapiatti” in forza di uno più decisivo e fondamentale per la riuscita del servizio.

Gli operatori della ristorazione non sono semplici lavoratori sono dei professionisti.   

Ma che differenza c’è tra mestiere e professione?

Perché forse la risposta alla mancanza di personale nel settore della ristorazione dovremmo cercarla proprio in qui;

la questione è facile solo in apparenza, pensi di conoscere la risposta, ma solo fino a quando non ti viene fatta una domanda diretta.

La differenza sostanziale è che il mestiere lo si impara facendolo, con la pratica e il tirocinio, la base di esperienza che si acquisisce sul campo è poi sufficiente per praticare il mestiere stesso. La professione invece ha bisogno di una intensa base di studio. Non sono sufficienti pratica e tirocinio, comunque necessari, è indispensabile una parte teorica che rende possibile l’apprendimento, certamente poi anche tramite la pratica, di nozioni di elevata complessità. Fino a qualche anno fa questa differenza era netta e la demarcazione pienamente riconoscibile: se voglio imparare a fare l’elettricista vado a fare l’apprendista elettricista, se voglio diventare avvocato, invece,  mi laureo in legge poi faccio gli anni canonici di praticantato e dopo un esame di stato posso finalmente esercitare la professione di avvocato. La complessità crescente della realtà nella quale viviamo sta tuttavia stravolgendo questo approccio, il risultato finale sarà che alcuni mestieri dovranno necessariamente evolversi in professioni, e il cuoco e il cameriere dovranno evolversi in questa direzione.

Per secoli il cuoco pedissequamente ripeteva le ricette che riusciva ad apprendere, a volte apportando delle varianti dovute alla sua sensibilità, e per avere un ampio ricettario e acquisire esperienze, doveva spostarsi sistematicamente da un ristorante a un altro.

Quelle ricette codificate andavano bene per almeno due generazioni e chi ne aveva appreso le metodologie viveva la professione con una moderata tranquillità.

Oggi che le tendenze culinarie cambiano velocemente e le ricette, anche quelle più innovative e professionali, si trovano facilmente in tutti i mezzi di comunicazione, per il cuoco contemporaneo diventa fondamentale non più dover apprendere le ricette ma conoscere le nuove tecniche, le tecnologie, le filosofie, l’organizzazione e la gestione della cucina e del personale.

Per rispondere positivamente a questa nuova condizione il cuoco deve ampliare le sue conoscenze e competenze, unendo scienza ed esperienza per arrivare a una vasta “cultura professionale”, la quale si acquisisce attraverso la ricerca, il confronto e la condivisione. Anche e sopratutto sotto il profilo del rapporto con i collaboratori, se nella brigata ricopre la funzione di chef di cucina, deve acquisire un nuovo approccio che non può essere più quello dell’imposizione e dell’autoritarismo. Egli sarà vincente se passerà dal ruolo di “capo” a quello di “guida” per il quale occorre autorevolezza, conoscenza e capacità di coinvolgimento. Tutto ciò si rende necessario perché il cuoco degli ultimi decenni, la così detta generazione dei Millennials, non è più il “brucia padelle” disinformato che ubbidiva agli ordini dello chef senza chiedere spiegazioni.

Alla fine, sui nostri ragazzi vale sempre la lezione che ci ha lasciato Sandro Pertini: “I giovani non hanno bisogno di prediche, i giovani hanno bisogno, da parte degli anziani, di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”.