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Pontecorvo/Primo novembre del 1943: l’Inizio dei bombardamenti

di Umberto Grossi
Alle ore 10,15 del
1° novembre di 77 anni fa, iniziava la pagina più triste della millenaria storia di Pontecorvo, allorquando subì il primo degli innumerevoli bombardamenti aerei che si susseguirono fino al mese di maggio 1944, quando il fronte di guerra non aveva ancora toccato il sud del Frusinate.

L’operazione va inquadrata nella strategia alleata di fare terra bruciata del territorio in mano ai tedeschi e di colpire le vie di comunicazione; Pontecorvo infatti era ed è direttamente collegato alla zona tirrenica.

E’ trascorso tanto tempo da quel giorno, ma nella memoria collettiva il ricordo di coloro che hanno perso la vita  incircostanze così tragiche non si è sopito. Il dolore  e il ricordo di quei Morti non svaniranno perché appartengono alla storia di Pontecorvo.

Ogni anno infatti tale ricorrenza viene ricordata e celebrata con una cerimonia religiosa e civile, che quest’anno a causa delle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria dovuta al COVID-19, avrà luogo  in forma ridotta con la sola celebrazione religiosa, anche se non mancherà la deposizione della corona di alloro al monumenti ai Caduti di tutte le guerre per ricordare il loro sacrifico per la Patria.

Di quella tragica giornata tanti sono stati i ricordi tramandati da coloro che la vissero e tra questi c’è quello del diario del notaio Carlo Baccari, che esercitò l’attività soprattutto in Pontecorvo, dal titolo “Foglie nel turbine”,  che ricorda i boati che scuotevano terribilmente il suolo e le bombe che scatenavano la rovina e il terrore, tra le grida e gli strazi,, il fumo e la polvere che si elevavano in quell’eccidio infernale che spense tante vite inermi e innocenti nella distruzione della Città:

“Il primo novembre del 1943 le vie e le piazze di Pontecorvo erano affollate perché lunedì giorno di mercato e vigilia del giorno dei morti. Gemma era uscita per la spesa, io sedevo al tavolo di lavoro, quando una pioggia di bombe cominciò a cadere sulla citta’.

La mia casetta tremava come per terremoto. Una bomba cadde sulla casa adiacente che crollò.

Quando la tregenda parve finita, mi precipitai alla ricerca di Gemma: con la mente confusa e tumulto, la vista annebbiata, camminavo a stento pervia delle pantofole in mezzo alla folla fuggente di qua, di là, come in un formicaio calpestato, domandando invano a questo e a quello.

Ed ecco un’altra formazione di bombardieri e un’altra pioggia di bombe.

Feci appena a tempo, insieme al garzone Pasquale che era venuto da Cassino a trovarci, a correre e rifugiarci in un vicino ricovero.

La sinistra caduta delle bombe era terrificante. In me s’era fatto un silenzio e un’immobilità di morte; pasquale tremava, piangeva, e ad ogni bomba invocava Santi e Madonne.

Quando finalmente potetti uscire, mi rimisi disperato alla ricerca di Gemma.

Rinunzio a descrivere la folla, come in un formicaio calpestato, pazza di terrore, fuggente di qua e di là, urlantesi, accalcantesi, gridando, piangendo, imprecando, e i feriti portati a braccia, e i morti e le ruine e tutto il resto.

Febbrilmente domandavo continuamente, finché qualcuno mi disse d’aver visto Gemma salva e dove. E così finalmente l’incontrai, convulsa nel viso, tutta coperta di polvere, capelli discinti, un’escoriazione sulla

fronte, e, curiosamente, in tutta quell’ira di Dio, stingeva ancora nella sinistra una ricotta comprata al mercato.

Essa s’era rifugiata con altre donne nel vano d’una casa dirimpetto al palazzo Sparagana che subito crollò su sé stesso centrato da una bomba.

Si fece intorno curiosità e un nuvolone di denso polverone le avvolse impedendo la vista. Come si fece uno spiraglio di luce, le donne, e con esse Gemma, saltando sul pietrame delle rovine, raggiunsero il fuoriporta.

Ma ecco un mitragliamento sulla folla (gli eroi! a che scopo?); Gemma si gettò con le altre in un avvallamento fiancheggiante la strada fuori porta, dove l’incontrai.

Corremmo a casa; febbrilmente radunammo e ci caricammo delle cose che credemmo più necessarie che potevamo portare e ci mettemmo in via seguendo la fiumana di gente, che come noi, cercava scampo nella fuga.

I parenti di Gemma, Sparagana e Aloisi Masella, erano stati i primi a lasciar Pontecorvo e s’erano sistemati in una casetta di loro antica proprietà in contrada Tordoni venduta a contadini, che occupavano un’altra

di fronte, divisa da cinque o sei metri di stradella e che si apriva con una terranea vasta cucina.

Essi ci accolsero a braccia aperte, ma purtroppo non c’era posto per noi. Ci allogammo in una stanzetta nella vicina casa d’una certa Concetta, dalla quale ci snidarono i tedeschi perché serviva loro.

Non trovammo altro rifugio che nella terranea dispensa della casa dei parenti di Gemma, proprio a fronte della cucina nell’altra abitazione dei contadini.

Poco lontano dalla casa, Roberto Sparagana, cugino di Gemma, aveva fatto costruire un lungo sotterraneo tunnel per ricovero, di rifugio dalle bombe, molto ben costruito. In esso le donne, fra rosarii e litanie, molte volte, sconvolte dalla paura, passavano il giorno. Spesso ci si dormiva anche la notte.

Da quel giorno nulla fu più come prima per Pontecorvo. Sparì in un attimo un mondo con le sue secolari abitudini, un paese medioevale considerato la perla della Ciociaria, seppellendo sotto le sue macerie e per sempre,i suoi costumi, la sua cultura, le sue memorie, i suoi affetti.

Quello che accadde quel giorno fu il prologo degli avvenimenti che accompagnarono la vita dei Pontecorvesi fino alla primavera del 1944, quando la guerra divenne un doloroso e triste ricordo e alla guerra la concittadina,ins. Letizia Migliorelli Abbatecola, ebbe a dedicare una significativa poesia intitolata:

1944 la guerra

Oh, incanto di una triste aurora!

Non c’è una rondine che vegli

Alle prime luci di rosa

nell’incipente albore.

Non c’è foglia che beva

una stilla di umore

in questa primavera

misera e desolata.

Gli alberi caduti,

l’erba sterpaglia.

Passò su i campi arati

lo sferragliar sinistro

dei carri armati,

e fu la morte.

Questa terra dura,

al vomere riottosa

ed al sudore avvezza,

cedè se stessa all’avanzar

di truppe e di mortali ordigni.

Due sterpi in croce

su un tumolo emergente

son segno d’una vita spenta,

d’un disperato ultimo gesto

d’un eroe ignorato.

Il suolo ha bevuto

Il sangue versato,

ha macerato bende,

qualche sepoltura

alle ossa sparse ha dato,

ma non ha pane.

Questi versi, che sono la sintesi delle atrocità della guerra, debbono far riflettere le generazioni presenti e future, affinchè si impegnino a continuare e mantenere l’unità e la fratellanza fra i popoli, animati e pervasi da un sentimento di pace.